La cantastorie su carta | Un nuovo inizio
Da poco è ricorso il settimo anniversario del mio esordio da traduttrice e non ho resistito alla tentazione di tirare le somme. 7 è da sempre un numero carico di spiritualità e di misticismo, e forse mi sono lasciata un po’ suggestionare. Ho riflettuto sui miei inizi: perché ho deciso di diventare traduttrice? Come ci sono finita in questo folle mondo editoriale? Come ho fatto e faccio a sopportare tutte le difficoltà di questo lavoro? E soprattutto… perché ho perseverato? Masochismo?
Avrete sentito varie espressioni associate al mestiere del traduttorə: “dire quasi la stessa cosa”, “autore invisibile, “ponte tra mondi”, “traghettatore di parole”, “traduttore, traditore”. Tutte con un fondo di verità (eh, sì, anche il traditore: etimologicamente parlando, tradire è un dare oltre). Avrete anche sentito che è un lavoro sottopagato, malconsiderato, facilmente sostituibile dall’intelligenza artificiale, anzi, non è nemmeno un lavoro: è un passatempo, un vezzo per intellettuali e soprattutto di traduzione non si campa. La traduzione è lo yin yang per antonomasia: ha questa connotazione romantica, un sottotesto quasi vocazionale – la missione sacra di trasmettere in un’altra lingua emozioni e sensazioni – che si scontra con la dura e infima realtà in cui əl traduttorə è l’ultima ruota del carro.
Non sto dipingendo esattamente un quadro idilliaco, eh? Eppure, eccomi qua, ho iniziato a tradurre professionalmente nel maggio del 2017 e non ho più smesso. Ed è stata tutta colpa delle fanfiction. Anzi, di una fanfiction, in particolare: Twist & Shout, la fanfiction più straziante della ship Dean/Castiel della serie Supernatural, ambientata durante l’inizio della pandemia di AIDS (allegria, portami via).
Tradurre fanfiction era un semplice hobby, un modo come un altro per fomentare ancora di più le mie ossessioni, ma è stato con questa storia che ho capito cosa vuol dire veramente tradurre. Vedere la risonanza che aveva avuto nel fandom italiano ha fatto scattare la scintilla in me: certo, la storia non era frutto del mio sacco, ma non erano state forse le parole che io avevo scelto a suscitare tali emozioni nel lettorə? Non erano le ore passate davanti allo schermo, le lacrime, la passione, e la gola secca a forza di leggere e rileggere ad alta voce, a trasparire? Fin dove è l’autore e fin dove sono io? A quest’ultima domanda non credo che saprò mai rispondere: i confini quasi si cancellano, si fondono, si deformano… in effetti, tradurre è una sorta di method acting. Ti perdi nell’autore, nella voce narrante, nei diversi personaggi per dare la migliore interpretazione possibile che non sarà mai uguale a quella di un altro.
Dopo tante riflessioni, ero giunta alla conclusione che əl traduttorə sia un menestrello, cantastorie odierno che fa risuonare su carta parole e sentimenti. I suoi strumenti? Empatia e sensibilità. Non sentirete la sua voce, ma le sillabe pizzicate hanno la sua firma.
Questa ispirazione bardica provocata da Twist & Shout si è impossessata di me e non mi ha più lasciata. Creare frasi e modellare parole (non scordiamoci che tradurre è un mestiere artigianale) per raggiungere le persone, respirare situazioni e sensazioni ogni volta nuove… non è un brutto modo per guadagnarsi da vivere, nonostante tutte le sue difficoltà. E se per assurda ipotesi vi trovaste a leggere Twist & Shout, non mi giudicate male: se rivedessi quella traduzione oggi, con molta probabilità le darei fuoco.
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